Tom Dumoulin rimpiange il passaggio alla Jumbo-Visma: “Non è stato un matrimonio felice”
Tom Dumoulin non rimpiange assolutamente il precoce addio al professionismo. Non nasconde tuttavia l’errore di passare alla Jumbo – Visma, la cui struttura ed organizzazione si è rivelata una gabbia per lui. Il 33enne neerlandese, dopo l’addio alle scene 18 mesi fa si mostra ora molto sereno rispetto a quanto successo, felice di essere riuscito nella difficile transizione tra vita sportiva e quel dopo che spaventa inevitabilmente molti atleti professionisti. Commentatore per il canale pubblico NOS, si è anche unito ad una società che produce abbigliamento ciclistico sostenibili, dedicandosi inoltre molto alla corsa, dimostrando ancora un grande fisico.
“Avevo bisogno di libertà e autonomia e questa squadra era sinonimo di struttura – ricorda a De Telegraaf riguardo il fortemente voluto passaggio alla Jumbo lasciando così la Sunweb con la quale era cresciuto e diventato grande – Non c’è niente di male in quella squadra, perché sta andando benissimo e, anche nei miei anni, aveva tutto sotto controllo. Ma ho perso ancora di più quella parte di cui avevo bisogno, l’autonomia. Non con cattive intenzioni, perché il team voleva il meglio per me, ma l’ho persa. Ho perso una parte di me stesso, il che ha reso il matrimonio non felice”.
Emozioni che l’ex corridore di Maastricht ritiene, anche se non si è visto, possano essere evidenti guardando il documentario che fu girato all’epoca dall’emittente per la quale oggi collabora proprio durante il Tour de France 2020: “Sarà sicuramente un modo per confrontare le cose. Che io non mi sentissi affatto bene in quel periodo e fossi molto infelice, lo si vede molto chiaramente nel film, almeno questo è quello che ho sentito. Io stesso ero lì, so com’era, non ho voglia di viverlo di nuovo. Mi vedete in difficoltà. Non devo condividerlo con il resto del mondo. Ad ogni modo, non sento il bisogno di condividere le cose con il resto del mondo. Soprattutto quando le cose vanno male”.
Tra i suoi segni distintivi, Dumoulin ha sempre messo la sua vita professionale di successo in prospettiva rispetto al resto della società. Per lui vincere in bicicletta non era motivo di orgoglio, ma a volte quasi qualcosa di cui sentirsi in colpa. “Si dà il caso che io sia in grado di andare in bicicletta velocemente, ne ho fatto la mia professione e ci sono persone che pensano che sia una cosa speciale – amette candidamente – Ma io in realtà non penso affatto che sia speciale. Me ne sono anche un po’ vergognato: qual è il mio contributo alla società? Quel ciclismo duro, all’epoca, mi sembrava davvero privo di significato. Perché lo facevo principalmente per me stesso”.
Per questo inizialmente faticava anche a godersi il momento, “sempre occupato con l’obiettivo successivo, senza mai fermarsi a mettere le cose in prospettiva”. Un approccio che gli permetteva di “fare le cose in piccolo”, senza chiedersi cosa stesse succedendo e cosa stesse facendo”. A ricordarglielo però sono arrivate le pressioni esterne, le aspettative degli altri essendo rapidamente diventato un punto di riferimento in gruppo, ma soprattutto aver riportato i Paesi Bassi ai vertici del ciclismo mondiale, anche in termini di grandi giri. Vincitore del Giro d’Italia 2017, secondo a Giro e Tour de France 2018, il classe 1990 era ormai ai vertici assoluti.
“Come atleta di punta, lavori costantemente al massimo delle tue capacità – ricorda – Tutto ciò che ne consegue è principalmente una zavorra. Ti distrae dal tuo obiettivo: pedalare il più velocemente possibile. Ho fatto e lasciato tutto per questo e volevo avere il maggior controllo possibile. A volte ho trovato difficile che così tante persone abbiano iniziato a simpatizzare con quello che stavo facendo. Improvvisamente il mio sogno è diventato il sogno di molti. Improvvisamente ho sentito anche la responsabilità di quel sogno verso le persone a casa, gli sponsor, la squadra. All’inizio avevo questo senso di responsabilità solo per me stesso, poi mi sono sentito responsabile per tante persone: questo mi ha fatto sentire oppresso”.
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